mercoledì 11 settembre 2019

EUGENIO MONTALE E IL MALE DI VIVERE di Eduardo Terrana



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EUGENIO MONTALE E IL MALE DI VIVERE



   La poesia del Poeta interprete della crisi spirituale dell’uomo moderno e della visione pessimistica e desolata della vita del nostro tempo.

Di Eduardo Terrana


Ricorre oggi, 12 settembre, l’anniversario di morte di un grande poeta e scrittore tra i più rappresentativi del novecento letterario italiano, Eugenio Montale. Nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a  Milano il  12 settembre 1981, Montale ha svolto la professione di giornalista. Nel 1967 è  nominato a senatore a vita e nel 1975 arriva il riconoscimento alla sua statura di poeta con il conferimento del  premio Nobel per la letteratura, dopo che le Università di Milano e di Torino gli avevano conferito, per meriti letterari, la “laurea honoris causa”. E’ stato, tra l’altro, insignito delle onorificenze  di Grande ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, nel 1961, e di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, nel 1965.

Montale Inizia nel 1925 la sua attività di critico artistico e letterario. La sua prima raccolta di poesie “ Ossi di seppia“ è del 1926, un anno che rappresenta un momento importante nella vita del Poeta perché lo vede collaboratore de “ Il Baretti “, la rivista di Piero Gobetti, e firmatario de” Il Manifesto degli intellettuali antifascisti”  di Giovanni Amendola e Benedetto Croce.

Conosce anche il letterato triestino Roberto Bazlen che lo introduce alla lettura e conoscenza delle opere dello scrittore  Italo Svevo, del quale  Montale approfondirà la conoscenza letteraria e sul quale scriverà numerosi articoli,  così scoprendone, da critico, il valore letterario e diffondendone l’opera .

Altro momento importante della vita del Montale sono gli anni tra il 1927 ed il 1937 e la sua permanenza a Firenze  caratterizzati da una straordinaria intensità di rapporti umani e culturali. A  Firenze conosce tra gli altri Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Salvatore Quasimodo, Guido Piovene e i critici Giuseppe De Robertis e Gianfranco Contini, che si radunano tutti al caffè “ Le Giubbe Rosse “.

Nel periodo collabora alle riviste “ Solaria “ di Carocci, Ferrara e Bonsanti, e “Pegaso” di Ojetti, Pancrazi e De Robertis.

“I vent’anni vissuti a Firenze”, scriverà Montale:  “ sono stati i più importanti della mia vita. Lì ho scoperto che non c’è soltanto il mare ma anche la terraferma; la terraferma della cultura, delle idee, della tradizione, dell’umanesimo. Vi ho trovato una natura diversa, compenetrata nel lavoro e nel pensiero dell’uomo. Vi ho compreso che cosa è stata, che cosa può essere una civiltà.”
Firenze segna una svolta anche nella vita sentimentale del poeta. Vi conosce infatti Drusilla Tanzi, moglie del critico d’arte Matteo Marangoni, che corteggia, ricambiato, e che diverrà in seguito sua moglie. Drusilla sarà la moglie,  ma altra donna sarà la sua  vera musa ispiratrice , una donna sulla quale Montale per l’intero arco della sua vita manterrà il più stretto riserbo  ed il cui nome sarà rivelato un anno dopo la morte del poeta dal critico Luciano Rebay . Si  tratta di Irma Brandeis ,
appartenente ad una delle famiglie più illustri di ebrei mitteleuropei  emigrati in America, che il poeta canterà nelle sue liriche col nome poetico di “Clizia”.

Quella di Montale è’ una poesia che, nel solco della letteratura decadente, ricerca: il senso della vita e un rapporto razionale tra le cose e gli eventi , che trova però solo   “una muraglia”, come dice il poeta, ”irta di cocci aguzzi di bottiglia”, che impedisce la conoscenza della realtà.

Una poesia che ricerca: il vuoto, che è intorno ad ogni individuo e la solitudine, compagna inseparabile, che ne caratterizza l’esistenza: l’alienazione, l’impossibilità di comunicare, l’indecifrabilità del reale.
Sono questi i contrassegni  della crisi dell’uomo moderno, del suo  male di vivere, della sua  totale negatività di essere, di cui Montale è interamente e drammaticamente interprete partecipe. Tale visione radicalmente negativa dell’essere domina in Montale sin dalle più antiche poesie degli “Ossi.”

Una visione negativa, tutta interiore e capace , tuttavia, di proiettare anche al di fuori, sul mondo dei fenomeni e delle apparenze, i sintomi di uno strisciante male e di un’intima, struggente, non-voglia di vivere.

E’ una poesia che si alimenta della scoperta dell’assurdità del reale e del rovesciamento delle certezze e che vuole essere una risposta tipicamente borghese al malessere dei tempi. Una poesia lontana dall’idea dannunziana del poeta-vate, che non ha quindi messaggi-verità da comunicare e che  parte dall’intuizione della fondamentale insussistenza del mondo; un’insussistenza  che è innanzitutto ontologica, che coinvolge anche l’io, e che nasce dalla constatazione che le cose non hanno consistenza ed il tutto è solo rappresentazione.
E la mancata scoperta del significato delle cose porta il poeta a negarle. Ecco allora che inizialmente  domina in Montale quella che lui stesso ha definito “la poetica del non “. Perciò egli scrive “ non domandarci la formula che mondi possa aprirti”, ossia la parola magica e  chiarificatrice, che possa dare delle certezze.”  L’unica cosa certa che egli si sente di dire si legge nei versi: “codesto solo oggi possiamo dirti - Ciò che non siamo - ciò che non vogliamo”, ossia gli aspetti negativi della vita.
Montale non è disponibile ad illusioni idealistiche, ossia a vedere il  mondo come rappresentazione dell’io,  e non crede neppure all’oggettività naturalistica del mondo.
Nella poesia di Montale il “Vero Assoluto”, rappresentato da Dio oppure, per l’agnostico, dal “Nulla”,  resta lontano ed inimitabile.
Rispetto ad esso l’uomo resta in una condizione di fondamentale ignoranza, perciò Montale si serve di un linguaggio anche modesto per esprimere  la sua poesia sentita  come acquisizione di uno spazio di silenzio e di libertà, come condizione al manifestarsi miracoloso di un improvviso “varco” verso il significato del tutto.
E il varco, che il poeta non rinuncia a ricercare, attraverso cui  giungere a comprendere il senso della vita individuale e cosmica, è rappresentato dall’inaspettata possibilità di essere posti oltre l’apparenza, verso quel quid definitivo che rappresenta l’approdo a qualcosa di più vero e duraturo dell’apparenza. Perciò la poesia del Montale esprime  la possibilità del miracolo, l’attesa di una epifania del senso ultimo delle cose.


In tale visione,  Il male ed il dolore, (vedi  poesia: Felicità raggiunta, si cammina),  hanno per Montale un’incidenza sulle vicende umane  che rimane irredenta se non avviene il miracolo di un fatto veramente positivo. La felicità è uno stato assolutamente precario sempre sul punto di dissolversi. E quand’anche l’individuo riesca a raggiungerla, essa non ha la facoltà di redimere ed annullare il passato.
Non c’è nella poesia di Montale sfogo sentimentale; non ricorre  in essa la protesta , la polemica e  gli accenti, ma c’è il male di vivere, oltre il quale s’intravede l’anelito alla libertà; come c’è  un’irruzione della storia, nella quale il poeta cerca “ Il varco “ per sé e per gli altri.
C’è il coraggio morale  di guardare le cose “a ciglio asciutto”,  come scrive  il poeta, cioè  senza speranze, né illusioni; di porsi contro il mito del poeta-vate: D’Annunzio, ma anche Carducci ed in parte  Pascoli;  di porsi,  come una bandiera, alla faciloneria, alla retorica e soprattutto all’ottimismo idiota del regime fascista , che si manifesta  contro l’uomo e contro la cultura.
Montale non è un creatore di parole che non hanno senso e quindi non comunicano altro che il nulla, ma è l’interprete dei dati reali considerati segnali-simbolo per decifrare la realtà.
Ogni paesaggio ed ogni oggetto è visto da Montale contemporaneamente nel suo aspetto fisico e nel suo aspetto metafisico, nel suo essere cosa ed insieme simbolo della condizione umana di dolore e di ansia. L’originalità perciò del suo poetare  sta proprio nell’uso della tecnica del correlativo - oggettivo, consistente nell’intuizione di un rapporto tra situazioni ed oggetti esterni ed il mondo interiore,  che domina la sua poesia, nel senso che  una serie di oggetti , di situazioni, di occasioni, diventano la formula di determinati stati emotivi,  della cui più intima ratio solo il poeta ne ha perfetta consapevolezza.
In tal modo il sentimento non è espresso ma rappresentato da un oggetto ad esso correlato.
In tale accezione la poesia è idea, memoria, e l’essenza delle cose è colta in negativo; e l’uomo è come smarrito nel caos del mondo dove cerca se stesso.
Tale consapevolezza dà al poeta il coraggio di rinunziare ad ogni illusione, di ripiegarsi su se stesso e di accettare il male di vivere e la sua condizione di uomo isolato che vive la sua solitudine.
Sono questi, in breve, gli aspetti significativi della poesia di Montale, dove la negatività domina, oscillando tra la constatazione del male di vivere e la speranza, vana, ma sempre presente e risorgente, del suo superamento,  e di cui è  una prima testimonianza la lirica “Non chiederci la parola” nella quale Montale precisa le motivazioni morali della sua poetica che non evade dalla realtà storica del momento, caratterizzata da un profondo vuoto morale e spirituale, ed invita pertanto a  guardare alla realtà senza chiedere  parole consolatorie alla poesia, che altro non può dare se non, come recita il verso,  “qualche storta sillaba e secca come un ramo”, ovvero che  la realtà va detta e rappresentata senza infingimenti.
La lirica testimonia la crisi spirituale  dell’uomo moderno, povero di un fondamento solido su cui edificare la vita di un senso trascendente.



La negatività vi è rappresentata in termini dialettici e non assoluti, tesa al positivo e non nichilista, anzi aperta a possibilità di soluzioni positive per il domani.

Nella lirica Montale esprime l’affermazione della propria indipendenza morale nonché l’accettazione del male di vivere.

Montale ha lasciato l’eredità della sua produzione lirica in varie  raccolte poetiche, ricordiamo in particolare, “ Ossi di seppia”  del 1926, “ Le occasioni” del 1939, “ La Bufera e altro” del 1956, Satura del 1971.

Negli “Ossi di Seppia”  Montale evidenzia la volontà di staccarsi dalla precedente tradizione aulica-accademica, carica di toni retorici, per affermare una poesia di timbro familiare.

Dice lo stesso Montale, “Scrivendo il mio primo libro …volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo  di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: un’esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione”.

La coscienza, umile e saggia del proprio limite umano e poetico apre però alla  speranza di incontrare  “ qualcosa “ che dia senso al tutto.

Negli Ossi di Seppia è centrale la riflessione su di sé, l’autobiografismo, la proiezione di sé in un simbolo naturale, che fosse “il mare-fermentante” o “l’ombra”  stampata sul muro. Vi si ritrovano i temi della constatazione della solitudine dell’uomo, dell’inconoscibilità del reale, dell’aridità della vita, ed in tal senso è già una dichiarazione di poetica.

Vi si ritrova anche il paesaggio ligure aspro, dissecato, impervio, dove, alle Cinque Terre di Monterosso, il Poeta trascorse, nell’infanzia e nell’adolescenza, le vacanze estive, in mezzo a quella natura, di fronte a quel mare , che si configurano come i luoghi della sua prima poesia  e per cui scriverà il poeta: “Mi affascinava la solitudine di certe ore, di certi paesaggi.”

Il motivo di fondo della poesia di Montale  è la visione pessimistica e desolata della vita del nostro tempo, che vede il crollo degli ideali, per cui tutto appare oscuro, vuoto e senza senso. Di tanto è testimonianza la lirica “Meriggiare pallido e assorto”, dove il poeta ci conduce alla cosmica rappresentazione della vita come sofferenza, correlando a questa visione-rappresentazione emblematica del limite umano  tutto l’esteriore  panorama naturale.

La vita si configura così in Montale come una prigione rovesciata, che condanna all’esclusione di un “paradiso”. Vivere è per lui, come andare  lungo una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia così impedendo di vedere cosa c’è al di là, ossia lo scopo ed il significato della vita.  Si colgono nella lirica i temi: del senso del mistero della vita, della solitudine esistenziale, del  dolore per un destino privo di felicità.
 Nella raccolta “Le  Occasioni” , si avverte la stessa visione tragica della vita  de  “Gli Ossi”,  ma vi si coglie anche il senso del colloquio a distanza con la salvifica ispiratrice, Clizia; dirà il poeta: “sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria”.
Nelle poesie della raccolta  Montale rievoca le  “occasioni”   della sua vita passata, amori, incontri, riflessioni su avvenimenti, paesaggi, ricordati non per nostalgia ma per analizzarle e capirle nel loro valore simbolico.

Il poeta sente  il bisogno insistente , ma deluso, di trovare il senso delle cose e della vita cercando nel mondo della memoria quella salvezza che la cieca negatività dell’esistenza vieta, ma scopre  che: una nebbia vela la memoria, ( lirica: “non recidere forbice quel volto”); il passato è irrevocabile, ( lirica: “la casa dei doganieri”); tutto è determinato dal caso; manca un filo logico nel rapporto tra le cose; il tempo scorre impietoso;  e la ricerca di un varco è vana.

Domina nella raccolta la tematica esistenziale anche se  già s’intravede la bufera, la minaccia prossima della guerra, che si avvicina.

Montale però, estraneo sempre alle mode, procede dritto per la sua strada.

Scriverà: “L’argomento della mia poesia , e credo di ogni possibile poesia, è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi  da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio … Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circonda, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me le ragioni dell’infelicità che andavano molto di là e al di fuori di questi fenomeni.” Si comprende già  da ciò come il  tema del male di vivere  influenza anche  la raccolta “La Bufera ed Altro” ed influenzerà anche la raccolta “Satura”. Ciò delinea una caratteristica che è prettamente del Montale: quello di essere e di rimanere sempre e solo “Un uomo di pena”.

Il suo pessimismo assume in queste raccolte i connotati tragici della violenza, della follia, dell’atrocità, che sono purtroppo le caratteristiche costanti della storia.

Dunque il male di vivere dell’uomo è perpetuo, e la sua condizione è destinata a non mutare col trascorrere del tempo.

La memoria di Irma Brandeis, la poetica Clizia, l’angelica ispiratrice, illumina  la saggia ed amara ironia degli ultimi scritti del Poeta, che, nelle sue ultime raccolte si rivela  un vecchio saggio malinconico che rifiuta i miti della società del benessere , e, mentre riflette con  ironica pacatezza sulla insensatezza del mondo moderno,  s’intrattiene, con tono  colloquiale, con la moglie da poco perduta.

Per la sua tensione  continua  verso l’essenziale e l’assoluto, per la sua ontologica disarmonia, l’opera poetica di Eugenio Montale, vista in retrospettiva,   non può, che essere collocata  nel solco di una corrente di poesia non realistica, non romantica, e nemmeno strettamente decadente, accostabile solo al  metafisico. Montale ci lascia in eredità la sua coerenza e la sua poesia.



Eduardo Terrana

Conferenziere internazionale sui Diritti Umani

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