
EUGENIO MONTALE E IL MALE DI VIVERE
La poesia del
Poeta interprete della crisi spirituale dell’uomo moderno e della visione pessimistica e desolata della
vita del nostro tempo.
Di Eduardo Terrana
Ricorre oggi, 12 settembre, l’anniversario di morte di un grande poeta
e scrittore tra i più rappresentativi del novecento letterario italiano,
Eugenio Montale. Nato a Genova il 12 ottobre 1896 e morto a Milano il
12 settembre 1981, Montale ha svolto la professione di giornalista. Nel
1967 è nominato a senatore a vita e nel
1975 arriva il riconoscimento alla sua statura di poeta con il conferimento del
premio Nobel per la letteratura, dopo che le Università di Milano
e di Torino gli avevano conferito, per meriti letterari, la “laurea honoris
causa”. E’ stato, tra l’altro, insignito delle onorificenze di Grande ufficiale dell'Ordine al merito
della Repubblica italiana, nel 1961, e di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine
al merito della Repubblica italiana, nel 1965.
Montale Inizia nel 1925 la sua attività di critico artistico e
letterario. La sua prima raccolta di poesie “ Ossi di seppia“ è del 1926, un
anno che rappresenta un momento importante nella vita del Poeta perché lo vede
collaboratore de “ Il Baretti “, la rivista di Piero Gobetti, e firmatario de”
Il Manifesto degli intellettuali antifascisti”
di Giovanni Amendola e Benedetto Croce.
Conosce anche il letterato triestino Roberto Bazlen che lo introduce
alla lettura e conoscenza delle opere dello scrittore Italo Svevo, del quale Montale approfondirà la conoscenza letteraria
e sul quale scriverà numerosi articoli,
così scoprendone, da critico, il valore letterario e diffondendone
l’opera .
Altro momento importante della vita del Montale sono gli anni tra il
1927 ed il 1937 e la sua permanenza a Firenze
caratterizzati da una straordinaria intensità di rapporti umani e
culturali. A Firenze conosce tra gli
altri Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Salvatore Quasimodo, Guido Piovene e
i critici Giuseppe De Robertis e Gianfranco Contini, che si radunano tutti al
caffè “ Le Giubbe Rosse “.
Nel periodo collabora alle riviste “ Solaria “ di Carocci, Ferrara e
Bonsanti, e “Pegaso” di Ojetti, Pancrazi e De Robertis.
“I
vent’anni vissuti a Firenze”, scriverà Montale: “ sono stati i più importanti
della mia vita. Lì ho
scoperto che non c’è soltanto il mare ma anche la terraferma; la terraferma
della cultura, delle idee, della tradizione, dell’umanesimo. Vi ho trovato una
natura diversa, compenetrata nel lavoro e nel pensiero dell’uomo. Vi ho
compreso che cosa è stata, che cosa può essere una civiltà.”
Firenze segna una svolta anche nella vita
sentimentale del poeta. Vi conosce infatti Drusilla Tanzi, moglie del critico
d’arte Matteo Marangoni, che corteggia, ricambiato, e che diverrà in seguito
sua moglie. Drusilla sarà la moglie, ma
altra donna sarà la sua vera musa
ispiratrice , una donna sulla quale Montale per l’intero arco della sua vita
manterrà il più stretto riserbo ed il
cui nome sarà rivelato un anno dopo la morte del poeta dal critico Luciano
Rebay . Si tratta di Irma Brandeis ,
appartenente ad una delle famiglie più illustri di ebrei
mitteleuropei emigrati in America, che
il poeta canterà nelle sue liriche col nome poetico di “Clizia”.
Quella di Montale è’ una poesia che, nel solco della letteratura decadente, ricerca: il senso della vita e un rapporto razionale tra le cose e gli eventi , che trova però solo “una muraglia”, come dice il poeta, ”irta di cocci aguzzi di bottiglia”, che impedisce la conoscenza della realtà.
Una poesia che ricerca: il vuoto, che è intorno ad
ogni individuo e la solitudine, compagna inseparabile, che ne caratterizza
l’esistenza: l’alienazione, l’impossibilità di comunicare, l’indecifrabilità
del reale.
Sono questi i contrassegni della crisi dell’uomo moderno, del suo male di vivere, della sua totale negatività di essere, di cui Montale è
interamente e drammaticamente interprete partecipe. Tale visione radicalmente
negativa dell’essere domina in Montale sin dalle più antiche poesie degli
“Ossi.”
Una visione negativa, tutta interiore e capace , tuttavia, di proiettare anche al di fuori, sul mondo dei fenomeni e delle apparenze, i sintomi di uno strisciante male e di un’intima, struggente, non-voglia di vivere.
E’ una poesia che si alimenta della scoperta
dell’assurdità del reale e del rovesciamento delle certezze e che vuole essere
una risposta tipicamente borghese al malessere dei tempi. Una poesia lontana
dall’idea dannunziana del poeta-vate, che non ha quindi messaggi-verità da
comunicare e che parte dall’intuizione
della fondamentale insussistenza del mondo; un’insussistenza che è innanzitutto ontologica, che coinvolge
anche l’io, e che nasce dalla constatazione che le cose non hanno consistenza
ed il tutto è solo rappresentazione.
E la mancata scoperta del significato delle cose porta
il poeta a negarle. Ecco allora che inizialmente domina in Montale quella che lui stesso ha
definito “la poetica del non “.
Perciò egli scrive “ non domandarci la formula che mondi possa
aprirti”, ossia la parola magica e chiarificatrice, che possa dare delle
certezze.” L’unica cosa certa
che egli si sente di dire si legge nei versi: “codesto solo oggi possiamo
dirti - Ciò che non siamo - ciò che non vogliamo”, ossia gli aspetti negativi
della vita.
Montale non è disponibile ad illusioni idealistiche,
ossia a vedere il mondo come
rappresentazione dell’io, e non crede
neppure all’oggettività naturalistica del mondo.
Nella poesia di Montale il “Vero Assoluto”, rappresentato
da Dio oppure, per l’agnostico, dal “Nulla”,
resta lontano ed inimitabile.
Rispetto ad esso l’uomo resta in una condizione di
fondamentale ignoranza, perciò Montale si serve di un linguaggio anche modesto
per esprimere la sua poesia sentita come acquisizione di uno spazio di silenzio e
di libertà, come condizione al manifestarsi miracoloso di un improvviso “varco” verso il significato del
tutto.
E il varco, che il poeta non rinuncia a ricercare,
attraverso cui giungere a comprendere il
senso della vita individuale e cosmica, è
rappresentato dall’inaspettata possibilità di essere posti oltre
l’apparenza, verso quel quid definitivo che rappresenta l’approdo a qualcosa di
più vero e duraturo dell’apparenza. Perciò la poesia del Montale esprime la possibilità del miracolo, l’attesa di una
epifania del senso ultimo delle cose.
In tale visione, Il male ed il
dolore, (vedi poesia: Felicità
raggiunta, si cammina), hanno per
Montale un’incidenza sulle vicende umane
che rimane irredenta se non avviene il miracolo di un fatto veramente
positivo. La felicità è uno stato assolutamente precario sempre sul punto di
dissolversi. E quand’anche l’individuo riesca a raggiungerla, essa non ha la
facoltà di redimere ed annullare il passato.
Non c’è nella poesia di Montale sfogo sentimentale;
non ricorre in essa la protesta , la
polemica e gli accenti, ma c’è il male
di vivere, oltre il quale s’intravede l’anelito alla libertà; come c’è un’irruzione della storia, nella quale il
poeta cerca “ Il varco “ per sé e per gli altri.
C’è il coraggio morale
di guardare le cose “a ciglio
asciutto”, come scrive il poeta, cioè senza speranze, né illusioni; di porsi contro
il mito del poeta-vate: D’Annunzio, ma anche Carducci ed in parte Pascoli;
di porsi, come una bandiera, alla
faciloneria, alla retorica e soprattutto all’ottimismo idiota del regime
fascista , che si manifesta contro
l’uomo e contro la cultura.
Montale non è un creatore di parole che non hanno
senso e quindi non comunicano altro che il nulla, ma è l’interprete dei dati
reali considerati segnali-simbolo per decifrare la realtà.
Ogni paesaggio ed ogni oggetto è visto da Montale
contemporaneamente nel suo aspetto fisico e nel suo aspetto metafisico, nel suo
essere cosa ed insieme simbolo della condizione umana di dolore e di ansia.
L’originalità perciò del suo poetare sta
proprio nell’uso della tecnica del correlativo - oggettivo, consistente
nell’intuizione di un rapporto tra situazioni ed oggetti esterni ed il mondo
interiore, che domina la sua poesia, nel
senso che una serie di oggetti , di
situazioni, di occasioni, diventano la formula di determinati stati
emotivi, della cui più intima ratio solo
il poeta ne ha perfetta consapevolezza.
In tal modo il sentimento non è espresso ma rappresentato
da un oggetto ad esso correlato.
In tale accezione la poesia è idea, memoria, e
l’essenza delle cose è colta in negativo; e l’uomo è come smarrito nel caos del
mondo dove cerca se stesso.
Tale consapevolezza dà al poeta il coraggio di
rinunziare ad ogni illusione, di ripiegarsi su se stesso e di accettare il male
di vivere e la sua condizione di uomo isolato che vive la sua solitudine.
Sono questi, in breve, gli aspetti significativi della
poesia di Montale, dove la negatività domina, oscillando tra la constatazione
del male di vivere e la speranza, vana, ma sempre presente e risorgente, del
suo superamento, e di cui è una prima testimonianza la lirica “Non
chiederci la parola” nella quale Montale precisa le motivazioni
morali della sua poetica che non evade dalla realtà storica del momento,
caratterizzata da un profondo vuoto morale e spirituale, ed invita pertanto
a guardare alla realtà senza
chiedere parole consolatorie alla
poesia, che altro non può dare se non, come recita il verso, “qualche storta sillaba e secca come un
ramo”, ovvero che la realtà va detta e rappresentata senza
infingimenti.
La lirica testimonia la crisi spirituale dell’uomo moderno, povero di un fondamento
solido su cui edificare la vita di un senso trascendente.
La negatività vi è rappresentata in termini dialettici
e non assoluti, tesa al positivo e non nichilista, anzi aperta a possibilità di
soluzioni positive per il domani.
Nella lirica Montale esprime l’affermazione della
propria indipendenza morale nonché l’accettazione del male di vivere.
Montale ha
lasciato l’eredità della sua produzione lirica in varie raccolte poetiche, ricordiamo in particolare,
“ Ossi di seppia” del 1926, “ Le
occasioni” del 1939, “ La Bufera e altro” del 1956, Satura
del 1971.
Negli “Ossi di Seppia” Montale
evidenzia la volontà di staccarsi dalla precedente tradizione
aulica-accademica, carica di toni retorici, per affermare una poesia di timbro
familiare.
Dice lo stesso Montale, “Scrivendo il mio primo libro …volevo che la
mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto.
Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure
sentivo di essere vicino a qualcosa di
essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione
assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: un’esplosione, la
fine dell’inganno del mondo come rappresentazione”.
La coscienza, umile e saggia del proprio limite umano e poetico apre
però alla speranza di incontrare “ qualcosa “ che dia senso al tutto.
Negli Ossi di Seppia è centrale la riflessione su di sé,
l’autobiografismo, la proiezione di sé in un simbolo naturale, che fosse “il mare-fermentante” o “l’ombra” stampata sul muro. Vi si ritrovano i temi
della constatazione della solitudine dell’uomo, dell’inconoscibilità del reale,
dell’aridità della vita, ed in tal senso è già una dichiarazione di poetica.
Vi si ritrova anche il paesaggio ligure aspro, dissecato, impervio,
dove, alle Cinque Terre di Monterosso, il Poeta trascorse, nell’infanzia e
nell’adolescenza, le vacanze estive, in mezzo a quella natura, di fronte a quel
mare , che si configurano come i luoghi della sua prima poesia e per cui scriverà il poeta: “Mi
affascinava la solitudine di certe ore, di certi paesaggi.”
Il motivo di fondo della poesia di Montale è la visione pessimistica e desolata della
vita del nostro tempo, che vede il crollo degli ideali, per cui tutto appare
oscuro, vuoto e senza senso. Di tanto è testimonianza la lirica “Meriggiare
pallido e assorto”, dove il poeta ci conduce alla cosmica rappresentazione
della vita come sofferenza, correlando a questa visione-rappresentazione
emblematica del limite umano tutto
l’esteriore panorama naturale.
La vita si configura così in Montale come una prigione rovesciata, che
condanna all’esclusione di un “paradiso”.
Vivere è per lui, come andare lungo una
muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia così impedendo di vedere cosa
c’è al di là, ossia lo scopo ed il significato della vita. Si colgono nella lirica i temi: del senso del
mistero della vita, della solitudine esistenziale, del dolore per un destino privo di felicità.
Nella raccolta “Le Occasioni” , si avverte la stessa visione tragica della vita de
“Gli Ossi”, ma vi si coglie anche
il senso del colloquio a distanza con la salvifica ispiratrice, Clizia; dirà il
poeta: “sullo sfondo di una
guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo
o procellaria”.
Nelle poesie della raccolta
Montale rievoca le
“occasioni” della sua vita
passata, amori, incontri, riflessioni su avvenimenti, paesaggi, ricordati non
per nostalgia ma per analizzarle e capirle nel loro valore simbolico.
Il poeta sente il bisogno
insistente , ma deluso, di trovare il senso delle cose e della vita cercando
nel mondo della memoria quella salvezza che la cieca negatività dell’esistenza
vieta, ma scopre che: una nebbia vela la memoria, ( lirica:
“non recidere forbice quel volto”); il
passato è irrevocabile, ( lirica: “la casa dei doganieri”); tutto è determinato dal caso; manca un filo
logico nel rapporto tra le cose; il tempo scorre impietoso; e la ricerca di un varco è vana.
Domina nella raccolta la tematica esistenziale anche
se già s’intravede la bufera, la
minaccia prossima della guerra, che si avvicina.
Montale però, estraneo sempre alle mode, procede
dritto per la sua strada.
Scriverà: “L’argomento della mia poesia , e credo di ogni possibile poesia, è la
condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento storico. Ciò
non significa estraniarsi da quanto
avviene nel mondo; significa solo coscienza, volontà, di non scambiare l’essenziale
col transitorio … Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la
realtà che mi circonda, la materia della mia ispirazione non poteva essere che
quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la
guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in
me le ragioni dell’infelicità che andavano molto di là e al di fuori di questi
fenomeni.” Si comprende già
da ciò come il tema del male di
vivere influenza anche la raccolta “La Bufera ed Altro” ed
influenzerà anche la raccolta “Satura”. Ciò delinea una caratteristica
che è prettamente del Montale: quello di essere e di rimanere sempre e solo “Un uomo di pena”.
Il suo pessimismo assume in queste raccolte i connotati tragici della
violenza, della follia, dell’atrocità, che sono purtroppo le caratteristiche
costanti della storia.
Dunque il male di vivere dell’uomo è perpetuo, e la sua condizione è
destinata a non mutare col trascorrere del tempo.
La memoria di Irma Brandeis, la poetica Clizia, l’angelica ispiratrice,
illumina la saggia ed amara ironia degli
ultimi scritti del Poeta, che, nelle sue ultime raccolte si rivela un vecchio saggio malinconico che rifiuta i
miti della società del benessere , e, mentre riflette con ironica pacatezza sulla insensatezza del
mondo moderno, s’intrattiene, con
tono colloquiale, con la moglie da poco
perduta.
Per la sua tensione continua verso l’essenziale e l’assoluto, per la sua ontologica disarmonia, l’opera poetica di Eugenio Montale, vista in retrospettiva, non può, che essere collocata nel solco di una corrente di poesia non realistica, non romantica, e nemmeno strettamente decadente, accostabile solo al metafisico. Montale ci lascia in eredità la sua coerenza e la sua poesia.
Eduardo Terrana
Conferenziere
internazionale sui Diritti Umani
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